La classe
dominante italiana ed il suo stato nazionale
( «Prometeo», N° 2, agosto 1946 )
Sommario:
§
Formazione
dell’unità italiana
§
Teoria
delle gloriose disfatte
§
I
rapporti delle forze sociali e politiche
§
I
socialisti e la guerra - Le lotte del dopoguerra
§
Il
fascismo - I fattori della sua vittoria
§
La
liquidazione dei complici del fascismo
§
Il
ridicolo «bis» del Risorgimento
§
La
crisi della sconfitta e la parodia antifascista
§
Il collasso delle classi
dirigenti in Italia e il proletariato
«Il partito proletario rivoluzionario deve respingere ogni
minima responsabilità nella politica di tutti i gruppi che hanno fatto propria
l’impostazione ideologica propagandistica del gruppo statale vincitore, che
hanno inscenato la stolta manovra non di un riconosciuto disarmo di un apparato
statale e militare debellato per sempre, ma di una conversione nel campo della
guerra borghese che non ha danneggiato seriamente uno dei gruppi e non ha
avvantaggiato e neppure ingannato l’altro; deve respingere la responsabilità
politica dell’armistizio segnato dagli stati dominanti tradizionali del paese
al solo fine di continuare nei loro privilegi e nel loro sfruttamento; deve
abbandonarli alla loro sorte nel trattamento che il vincitore riserberà loro
nel gioco delle forze di ristrettissima minoranza sociale che detteranno e
sistemeranno la pace».
(da «
Formazione dell’unità italiana
Le parole d’ordine politiche affacciate da tutti i partiti nella fase attuale,
non diversamente da quelle del precedente regime, presentano come un patrimonio
comune a tutte le classi del popolo italiano la ricostituzione della unità
nazionale realizzatasi attraverso il Risorgimento e le guerre
dell’indipendenza.
I partiti che pretendono richiamarsi al proletariato accettano in pieno la
impostazione politica secondo la quale il fascismo avrebbe assunto la portata
di una demolizione delle conquiste del Risorgimento ed il compito storico di
oggi sarebbe quello di rifare e ripercorrere la via del risorgimento nazionale.
Per conseguenza, ogni contrasto economico di interessi e conflitto politico di
classi dovrebbe tacere dinanzi alle esigenze della vita della nazione e della
sacra unione di tutti gli italiani.
E bene ripercorrere a larghissimi tratti la storia della formazione dello
Stato borghese italiano, per concludere che, mentre è assurda la tesi che tutto
questo ciclo debba essere o possa essere ripercorso e rivissuto nelle
diversissime condizioni odierne, d’altra parte il preteso patrimonio e le
vantate conquiste consistono in ori falsi e merci avariate.
La formazione in Italia di uno Stato unitario e la costituzione del potere
della borghesia, pur inquadrandosi nella concezione generale di tali processi
stabilita dal marxismo, presentano aspetti particolari e speciali, che
soprattutto ne hanno ritardato il processo rispetto a quello presentato dalle
grandi nazioni europee, dissimulando in parte la schietta manifestazione delle
forze classiste.
Le cause sono ben note, ed anzitutto geografiche oltre che etniche e
religiose. L’Italia, tanto continentale che peninsulare, ha costituito per
molti secoli, dopo che la diffusione della civiltà oltre i limiti del mondo
romano le aveva tolto la posizione centrale rispetto ai territori mediterranei,
una via di passaggio delle forze militari dei grandi agglomerati formatisi
attorno ad essa, ed un facile ponte per le invasioni e le stesse migrazioni di
popoli da tutti i lati. Le varie zone del territorio furono a molte riprese
occupate, organizzate e dominate da stirpi conquistatrici venute dall’Est e
dall’Ovest, dal Sud e dal Nord. E nessuna di queste poté talmente rompere
l’equilibrio a suo favore da costituire uno stabile regime con egemonia su
tutta l’estensione del territorio. Quindi, nel periodo medievale feudale, non
si gettò la base di uno Stato dinastico, aristocratico, teocratico, unitario,
come avvenne negli altri grandi paesi i cui confini geografici e la cui
posizione rispetto al giuoco delle forze europee meglio si prestavano a tale
stabilizzazione. Influì su questo la presenza del centro della Chiesa con le
sue lotte contro il prevalere eccessivo delle caste feudali e delle signorie
dinastiche, e quindi si determinò la situazione correntemente definita come
dipendenza dallo straniero e suddivisione in molteplici staterelli
semi-autonomi.
Alla vigilia del prevalere del capitalismo nell’economia europea, per
quanto questo avesse in Italia salde radici e secolari inizi, non era affatto
compiuta l’evoluzione statale che poteva permettere alla borghesia italiana di
trovare un centro statale solido di cui impadronirsi per accelerare al massimo
il ritmo della trasformazione sociale.
Tuttavia l’Italia, per il fatto stesso che nelle pianure del Nord si
combattevano e talvolta decidevano le grandi guerre europee e per
l’accessibilità dal mare delle sue parti periferiche, subì con stretto legame
le influenze della più classica tra le rivoluzioni capitalistiche, quella
francese, e vi fu, se non proprio una repubblica borghese italiana unitaria,
un’Italia Napoleonica. La borghesia ricevette l’idea dell’unità nazionale
dall’esterno, la elaborò ideologicamente e socialmente, la diffuse tra le
classi medie, e non meno di altrove si servì delle classi lavoratrici come
strumento per realizzarla. Ma tale realizzazione fu più che in ogni altro paese
infelice e contorta, e la sua fama riposa sull’immenso uso di falsa retorica,
di cui fu infarcito tutto il cammino obliquo e opportunista del sorgere dello
Stato borghese italiano.
Dopo aver lungamente esitato fra tutte le forme politiche, dalla teocrazia
nazionale alla repubblica federale, alla repubblica unitaria, alla monarchia
cosiddetta costituzionale, la soluzione che la storia trovò al giuoco delle
forze aveva inizialmente un basso potenziale e una portata disgraziata.
Lo staterello piemontese, gonfiatosi a nazione italiana, non era che un
servo sciocco dei grandi poteri europei e la sua monarchia dalle pretese glorie
militari una ditta per affittare capitani di ventura e noleggiare, a vicenda,
carne da cannone a francesi, spagnoli, austriaci; in ogni caso, al militarismo
più prepotente o al miglior pagatore. Solo a questi patti un paese posto in
così critica posizione poteva esibire per molti secoli una apparente continuità
politica.
Tuttavia il processo, che condusse la dinastia e la burocrazia statale
piemontesi a conquistare tutta l’Italia, sfruttò le forze positive della classe
borghese, che, attraverso le molto fortunate e per nulla gloriose guerre di
indipendenza, riuscì ad attuare la sua rivoluzione sociale, spezzò i predomini
feudali e clericali, e, secondo la classica funzione della borghesia mondiale,
seppe farsi del proletariato il più efficace alleato, e costruirgli nel nuovo
regime lo sfruttamento più esoso. L’operaio italiano fu tradizionalmente il più
ricco di libertà retoriche e il più straccione del mondo.
Attraverso questo processo convenzionalmente definito come la conquista
dell’indipendenza, dell’unità e dell’uguaglianza politica per tutti gli
italiani, i gruppi più progrediti della classe capitalistica industriale del
Nord assoggettarono a s‚ l’economia della penisola, conquistandosi utili
sbocchi e mercati e venendo in molte zone a paralizzare lo sviluppo
economico-industriale locale, che, sebbene ritardato, si sarebbe esplicato
efficacemente sotto un diverso rapporto di forze politiche.
D’altra parte, non solo la classe dei proprietari terrieri del centro e del
Sud non esitò affatto a porsi sotto l’egida del nuovo Stato - sempre a conferma
della nessuna sopravvivenza di orientamenti feudalistici fra questi strati - ma
anche la cosiddetta e famigerata classe dirigente del Mezzogiorno, composta di
intellettuali, professionisti ed affaristi, si unì al potere dello Stato
italiano in una perfetta simbiosi basata sul concorde sfruttamento dei
lavoratori e dei contadini, i quali, mentre dovettero sostenere pesi fiscali
sconosciuti ai vecchi regimi per rinsanguare i bilanci del nuovo Stato, furono
la materia prima per le manovre dell’elettoralismo, prestandosi a fornire ai
ministeri le fedelissime maggioranze ottenute attraverso il mercato tra piccoli
signorotti e gerarchi locali, irreggimentatori di voti, e i favori dei poteri
centrali.
Questo sistema di scambi di servizi, a cui non fu mai estraneo fin dai
tempi del giolittismo l’impiego della reazione di polizia ed anche di mazzieri
irregolari, mascherò in realtà una dittatura che anticipava di decenni quella
di Mussolini, e si prestò magnificamente all’insediamento del fascismo,
realizzato senza colpo ferire dopo il debellamento dei centri proletari e
rurali del Nord e delle poche cittadelle rosse del resto dell’Italia.
La via politico-militare del Risorgimento, se può rappresentare un ottimo
esempio di abilità politica, percorre tappe segnate sistematicamente dalla sconfitta
militare e dal tradimento politico.
La classe dominante italiana, riuscita nel saper intuire a tempo da che
parte era il più forte cambiando audacemente di posto nei conflitti tra gli
Stati esteri, coerentemente seguì questo sistema nel periodo fascista, ma,
quando il sistema venne per la prima volta meno, determinando la catastrofe,
non seppe trovare altra via di uscita che un ennesimo tentativo di aggiogarsi
al carro del vincitore.
Teoria delle gloriose disfatte
Il Piemonte, schiacciato dall’Austria nel ‘48, nel ‘59 riesce (sotto la
guida del vero capostipite dell’italico ruffianesimo, Camillo Cavour) ad
approfittare della vittoria della Francia e guadagnare la Lombardia, volgendosi
quindi verso il Sud. Gli è facile liquidare gli staterelli vassalli
dell’Austria, ma deve sostare dinanzi agli Stati del Papa per ordine del
Padrone Francese. Tuttavia ha l’abilità di impadronirsi senza colpo ferire di
tutto il Sud d’Italia occupato da Garibaldi, sotto pretesto di avergli
mercanteggiato l’appoggio inglese ed offrendogli la solita cortese alternativa
tra la figura di eroe nazionale e la nuova galera monarchica.
Per avere il Veneto occorre, dopo Magenta e Solferino vinte dai francesi,
attendere Sadowa vinta dai Prussiani, malgrado le dure batoste di Custoza e di
Lissa. Infine, il retorico e pomposo coronamento dell’unità con Roma capitale è
realizzato, ancora una volta, non certo attraverso la buffonesca breccia di
Porta Pia, ma grazie alle armi prussiane di Sedan.
Il nuovo Stato fece anche i suoi esperimenti sulla via del colonialismo,
pur essendo in questo campo l’ultimo venuto e non potendo pretendere di
riattaccare i suoi timidi tentativi, tra gli stentati permessi delle
Cancellerie di Europa, alle tradizioni delle Repubbliche marinare italiane.
Tanto per non fare eccezione al solito metodo, la conquista della colonia del
mar Rosso è segnata dalla tremenda sconfitta militare di Adua. La successiva
conquista della Libia viene fatta, anche tra gravi errori ed insuccessi militari,
a spese della Turchia, colta in una fase di crisi dall’incalzare delle guerre
balcaniche.
Già da questa fase di imperialismo a scartamento ridotto sono evidenti
nell’economia e nella politica capitalistica italiana i sintomi del nuovo
indirizzo sociale che precorrono l’evoluzione fascista del capitalismo. Sorgono
gruppi nazionalistici, che vengono a costituire la destra borghese in
sostituzione del tradizionale aggruppamento «clericale-moderato» e, prendendo
uno spiccato carattere anti-proletario, enunciano le parole d’ordine che
saranno poi del fascismo, mentre la loro stampa è direttamente alimentata
dall’industria pesante interessata a speculare sulla guerra e sulle imprese
d’oltremare. Già l’economia italiana conteneva germi non trascurabili di monopolismo
e di protezionismo e lo Stato alimentava con la legislazione fiscale o doganale
industrie parassitarie, come ad esempio quella degli zuccheri e degli alcool.
In economia, dunque, come in politica, la borghesia italiana, povera rispetto
alle altre in senso quantitativo, vari decenni prima di Mussolini evolveva
verso la sua fase fascista. L’espressione politica caratteristica di questo
metodo borghese fu il Giornale d’Italia, coi Bevione, Federzoni, Bergamini, a
cavallo tra il liberalismo e il nazionalismo (il che non toglie che taluno di
essi sia oggi considerato un esponente antifascista). Era una corrente più
sfrontatamente e modernamente audace di quella del liberalismo economico e
politico classico del «Corriere della Sera».
Il giuoco politico della classe dominante italiana continua nella Triplice
Alleanza con «l’odiato tedesco» dei libri di scuola.
Nel 1914, i vari consulenti della politica dinastica esitarono a pesare il
pro e il contro circa l’orientamento in cui andava indirizzato il classico
calcio dell’asino. E notevole rilevare che i gruppi nazionalistici dipendenti
dall’industria pesante passarono audacemente dal sostenere l’intervento
triplicista alla più accesa campagna per l’intervento contro l’Austria, il che
dimostra che, per la moderna borghesia industriale, i fini della guerra sono
materiali e non ideologici. La clamorosa conversione non impedì agli
interventisti della sinistra democratica, socialistoidi o repubblicani, di
accogliere a braccia aperte questi alleati nella campagna guerrafondaia del
1915, comprovando così che la genesi del fascismo ebbe la sua incubazione nella
storia politica della classe dominante in Italia, fin dalla costituzione
nazionale.
Nella guerra europea, con un primo tradimento il Re Italiano resta neutrale,
con un secondo interviene contro i suoi alleati, che a Caporetto gli danno la
meritata lezione. Ma invano, poiché, grazie al famoso stellone, l’Italia dei
Savoia esce dalla guerra ancora ingrandita delle province adriatiche e
trentine. Tanto per chiudere il ciclo della cosiddetta politica estera, dopo il
magro trattamento fatto più che logicamente alla classe dominante italiana
dalle potenze vincitrici della Prima Guerra Mondiale, la borghesia sabauda ha
realizzato ancora una volta il tradimento a danno dei suoi alleati e dei
riscattatori delle sue sconfitte sui campi di battaglia, calcolando che nella
guerra successiva la bilancia avrebbe traboccato a favore della rinascente
potenza del militarismo tedesco. Sorse così l’Asse, che era tanto poco necessariamente
condizionato dalla fase fascista, quanto era una ripetizione della politica del
‘66 e di quella triplicista. Attraverso la calcolata vittoria della forza
germanica, l’Italia del Risorgimento e dei Savoia, dopo avere strappato in
anticipo, con una condotta come sempre non priva di audacia nel senso del
rischio nel giuoco sulla forza altrui, il simulacro di Impero africano,
presumeva, seguitando a cantare il falso ritornello dell’irredentismo, di
arrotondarsi ancora. Tunisi, Corsica, anche Nizza e Savoia abilmente vendute
nel 1859 dal vecchio Papà imbroglione e maestro del giuoco, dovevano impinguare
ancora il grande Stato Italiano.
Ma la continuità indiscutibile di questo giuoco è stata spezzata
brutalmente dal corso degli eventi. La vittoria, questa volta, si è messa dalla
parte opposta a quella in cui la scaltrita borghesia italiana si era schierata,
è sopravvenuta la strepitosa disfatta e l’invasione, anzi la doppia invasione.
Questa volta, da una parte e dall’altra, le due coalizioni in conflitto si son
dimostrate decise a strappare tutte le residue penne al gonfio pavone
dell’Italia Sabauda, di cui egualmente disprezzavano l’impotenza militare.
Eppure, ancora una volta questa borghesia calpestata e travolta dalla
storia ha riproposto il suo gioco, e invece di contare le ammaccature e mettere
in sesto le ossa, ha avuto l’impudenza di offrirsi per combattere, di parlare
ancora di combinazioni da pari a pari, di alleanze, di sforzi bellici, e di
ripetere il suo stupido grido di «Vinceremo», invece di confessare finalmente
di avere per sempre perduto.
I rapporti delle forze sociali e
politiche
Quali sono i riflessi di queste vicende storiche, per quanto riguarda,
nell’ambito dell’Italia, il giuoco delle forze sociali e la lotta dei partiti?
Il proletariato all’inizio non poteva non rispondere all’appello di
alleanza che, più che la sotterranea borghesia, gli lanciavano le classi
intellettuali, perché‚ sentiva di dover collaborare alla distruzione delle
impalcature feudali e delle influenze chiesastiche per poter assurgere ad un
suo compito ulteriore.
Quindi, forse più che altrove, per molti decenni gli operai e i contadini
italiani camminano sotto le bandiere delle ideologie borghesi giacobine, danno
la mano alla scapigliata sinistra borghese, si imbevono delle parole e delle
posizioni mentali della democrazia avanzata. Fino al 1900, gli importantissimi
movimenti di lavoratori urbani e rurali, nel Sud e nel Nord, pur configurandosi
sempre più in una fisionomia classista, appaiono come il settore avanzato del
blocco dei cosiddetti partiti popolari. Il Partito Socialista si sviluppa, ma è
soprattutto la forza animatrice della classica estrema sinistra parlamentare,
che lotta nella piazza come un blocco solo nell’urto avvenuto nel 1898 tra le
forze di destra e di sinistra della borghesia, o meglio nel primo esempio
storico di un tentativo della borghesia liberale di rivedere i suoi metodi e
schierarsi dinanzi al prorompere del movimento sociale sotto l’aspetto della
forza armata dello Stato.
Gli stessi quadri del movimento socialista e proletario sono educati alla
scuola magniloquente quanto vaniloquente della democrazia carducciana in
letteratura, boviana-cavallottiana in politica, torneo di onesti Don Chisciotte
in ritardo tuonanti in nome della Libertà, dell’Onesta, della Umanità e di
simili gloriose ombre.
Molto più seriamente, nel sottosuolo della vita politica, la borghesia
lavora all’imprigionamento ideologico e materiale delle gerarchie proletarie
con la sua organizzazione più reazionaria e più adatta a fronteggiare lo
spettro della lotta di classe,
La stessa origine spuria della borghesia in Italia spiega il ritardo con
cui la teoria rivoluzionaria marxista si diffonde fra le masse e il largo prevalere
delle tendenze anarchiche, che non costituiscono che l’esasperazione, per nove
decimi letteraria, del liberalismo borghese e dell’individualismo illuminista.
Ciò spiega anche come, prima di una solida tendenza marxista, si delineino nel
proletariato correnti da un lato riformiste e collaborazioniste, dall’altro di
indirizzo sindacalista sul tipo francese soreliano.
Su tutto sovrasta ancora il mito dell’anticlericalismo.
La guerra a base di artiglierie retoriche e convenzionali contro la sottana
nera del prete è presentata in quest’epoca come il fatto centrale della storia
e il suo successo è un postulato dinanzi al quale deve cedere ogni altro; il
padrone borghese più esoso può divenire un fratello del lavoratore sfruttato se
si degna di lanciare qualche ingiuria al buon Dio ed al suo vicario in terra.
La lotta per uscire dalla rete vischiosa di questo inganno anticlassista fu
lunga e difficile e prese aspetti che oggi possono apparire secondari:
intransigenza alle elezioni politiche di primo e secondo grado, rottura dei
blocchi anticlericali amministrativi, incompatibilità tra P.S. e Massoneria.
Contemporaneamente, il partito, lottando contro i due revisionismi riformista e
sindacalista, si orientava sulla base marxista, e la sua direzione, al momento
dello scoppio della Prima Guerra Mondiale, era nelle mani della frazione
intransigente rivoluzionaria. Capo di questa frazione, dopo la espulsione degli
opportunisti di destra, Bonomi e Cabrini (fautori della collaborazione con la
monarchia, che si era volta con entusiasmo alla politica massonizzante di
sinistra) e Podrecca (apologista della guerra di conquista imperialista in
Libia), fu Benito Mussolini, direttore dell’«Avanti!». Egli, non senza qualche
sospetta esagerazione in senso volontaristico e blanquistico, aveva diffuso
parole di sfida rivoluzionaria alla borghesia dominante, che associava
tradizionalmente alle orge letterarie di liberalismo avanzato la repressione
senza riguardi, poliziesca e armata, delle rivolte degli affamati e che,
tradizionalmente, e prima che fosse celebre il nome di manganello, tutelava con
squadre di mazzieri le ladrerie amministrative e la frode nelle cagnare
elettorali.
I socialisti e la guerra - Le
lotte del dopoguerra
La preparazione classista degli ultimi anni consentì al proletariato
d’Italia di reagire meglio che in altri paesi all’opportunismo di guerra.
La coscienza politica della classe lavoratrice permise di resistere al
dilagare delle tre menzogne fondamentali della propaganda interventista
destinata a far tacere ogni palpito di azione e di lotta di classe: la difesa
della Democrazia contro l’imperialismo teutonico, il trionfo del principio di
nazionalità con la liberazione dei fratelli irredenti, la difesa del sacro
suolo della patria contro l’invasione straniera. Ma, se non capitolarono il
proletariato ed il suo partito, capitolò da solo proprio il «capo degli
intransigenti», a dimostrazione di quanto valgano i «capi» nel gioco delle
forze sociali. Il tradimento di Benito Mussolini verso il proletariato e la
rivoluzione porta la data del 18 ottobre 1914; il 23 marzo 1919 e il 28 ottobre
1922 egli non commise un’aggravante di reato, ma seguì il logico impulso delle
leggi storiche e politiche in conseguenza alla premessa di allora.
Passato il ciclone della guerra, il proletariato socialista, che aveva
dovuto subirla, ebbe un potente ritorno di combattività classista e tentò di
porsi il problema di scaraventare giù dal potere, malgrado la sua vittoria di
guerra, la classe che la opprimeva.
Ma le armi materiali e politiche per questo compito non erano appieno
forgiate e la intransigenza anti-collaborazionista, come la opposizione alla
guerra che la centrale del P. S. aveva contenuto nella sterile formula «n‚
aderire n‚ sabotare», erano piattaforma insufficiente ad intendere e realizzare
il postulato storico della conquista insurrezionale del potere e della
instaurazione della dittatura proletaria. Non tutto il partito seppe quindi
raccogliere l’impulso storico formidabile che veniva dalla Rivoluzione di
Russia e che fondeva per la prima volta la teoria politica e l’azione di
combattimento rivoluzionario del proletariato mondiale.
Pur nel loro magnifico rifiorimento, le battaglie isolate (date con
scioperi vittoriosi sul terreno sindacale, con i grandi scioperi politici delle
principali città seguiti dall’occupazione delle fabbriche e di altri centri
della vita sociale) non si fusero utilmente in un unico assalto al potere
centrale della borghesia.
Questa, a vero dire, comprese la tempesta e seppe affrontarla con
sufficiente coscienza del momento storico e realismo di vedute. Nella prima
fase del dopoguerra (1919), la politica della classe dominante fu quella
tradizionale di diluire lo slancio classista nella parziale soddisfazione delle
richieste economiche ed in un’orgia comiziaiola e cartacea di parlamentarismo.
Nitti, uno degli abilissimi della casta politica italiana, fece senza
esitazione rovesciare nel Parlamento 150 deputati socialisti, mentre il furbo
reuccio sculettava di simpatia per la loro ala destra, nella speranza di
attrarla in una combinazione di gabinetto.
Successivamente, il vecchio e più consumato Giolitti, senza certo ammainare
il bandierone della democrazia, cominciò a preparare le trincee della
resistenza armata. Senza nessun timore, l’oculato e furfante maestro della
politica italiana lasciò entrare gli operai nelle fabbriche tenendo bene in
pugno le questure. La sua formula era stata sempre che l’Italia si governava
dal Ministero dell’Interno; il potere del liberalismo italiano è stato sempre
affare di polizia.
Il fascismo - I fattori della sua
vittoria
Frattanto, il complice di avanguardia della classe dominante italiana, Benito
Mussolini, provvedeva a impersonare la riscossa delle forze conservatrici e
fondava il movimento fascista. La politica fascista, caratteristica del moderno
stadio borghese, faceva in Italia il primo classico esperimento. Col fascismo
la borghesia, pur sapendo che lo Stato ufficiale con tutte le sue impalcature è
il suo comitato di difesa, cerca di adattare il classico suo individualismo a
una coscienza e a un’inquadratura di classe.
Essa ruba così al proletariato il suo segreto storico, e in tale bisogna i
suoi migliori pretoriani sono i transfughi dalle file rivoluzionarie. Nella
inquadratura fascista, la borghesia italiana seppe in effetti impegnare s‚
stessa e i suoi giovani personalmente nella lotta, lotta per la vita e per la
salvezza dei suoi privilegi di sfruttamento. Ma, naturalmente, il fascismo
consisté anche nell’inquadrare nelle file di un partito e di una guardia di
combattimento civile gli strati di altre classi tormentate dalla situazione,
non esclusi alcuni elementi proletari delusi dalla falsa apparenza dei partiti
che da anni parlavano di rivoluzione, ma rivelavano la loro palese impotenza.
Il compito immediato del fascismo è la controffensiva all’azione di classe
proletaria, avente scopo non puramente difensivo, secondo il compito tradizionale
della politica di stato, ma distruttivo di tutte le forme autonome di
organizzazione del proletariato. Quando la situazione sociale è matura nel
senso rivoluzionario, sia pure con un processo difficile e pieno di scontri,
ogni organo delle classi sfruttate che lo Stato non riesca ad assorbire per
irretirlo nella sua pletorica impalcatura, e che seguiti a vivere su una
piattaforma autonoma, diventa una posizione di assalto rivoluzionario. La
borghesia nella fase fascista comprende che tali organismi, sebbene tollerati
dal diritto ufficiale, devono essere soppressi, e, non essendo conveniente
inviare a farlo i reparti armati statali, crea la guardia armata irregolare
delle squadre d’azione e delle camicie nere.
La lotta si ingaggiò tra i gruppi di avanguardia del proletariato e le
nuove formazioni del fascismo e, come è ben noto, fu perduta dai primi. Ma
questa sconfitta e la vittoria fascista furono possibili per l’azione di tre
concomitanti fattori.
Il primo fattore, il più evidente, il più impressionante nelle
manifestazioni esteriori, nelle cronache e nei commenti politici, nelle
valutazioni in base ai criteri convenzionali e tradizionali, fu appunto la
organizzazione fascista mussoliniana, con le sue squadre, i gagliardetti neri,
i teschi, i pugnali, i manganelli, i bidoni di benzina, l’olio di ricino e
tutto questo truce armamentario.
Il secondo fattore, quello veramente decisivo, fu l’intiera forza
organizzata dell’impalcatura statale borghese, costituita dai suoi organismi.
La polizia, quando la vigorosa reazione proletaria (così come da principio
avveniva molto spesso) respingeva e pestava i neri, ovunque interveniva
attaccando e annientando i rossi vincitori, mentre assisteva indifferente e
soddisfatta alle gesta fasciste quando erano coronate da successo. La
magistratura, che nei casi di delitti sovversivi e «agguati comunisti»
distribuiva trentine di anni di galera ed ergastolo in pieno regime liberale,
assolveva quei bravi ragazzi degli squadristi di Mussolini, pescati in pieno
esercizio di rivoluzione e di assassinio. L’esercito, in base ad una famosa
circolare agli ufficiali del ministro della guerra Bonomi, era impegnato ad
appoggiare le azioni di combattimento fascista; e da tutte le altre istituzioni
e caste (dinastia, Chiesa, nobiltà, alta burocrazia, parlamento) l’avvento
dell’unica forza venuta ad arginare l’incombente pericolo bolscevico era
accolta con plauso e con gioia.
Il terzo fattore fu il gioco politico infame e disfattista
dell’opportunismo social-democratico e legalitario. Quando si doveva dare la
parola d’ordine che all’illegalismo borghese dovesse rispondere (non avendo
potuto o saputo precederlo e stroncarlo sotto le sporche vesti democratiche)
l’illegalismo proletario, alla violenza fascista la violenza rivoluzionaria, al
terrore contro i lavoratori il terrore contro i borghesi e i profittatori di
guerra fin nelle loro case e nei luoghi di godimento, al tentativo di affermare
la dittatura capitalista quello di uccidere la libertà legale borghese sotto i
colpi di classe della dittatura proletaria, si inscenò invece la imbelle
campagna del vittimismo pecorile, si dette la parola della legalità contro la
violenza, del disarmo contro il terrore, si diffuse in tutti i modi tra le
masse la propaganda insensata che non si dovesse correre alle armi, ma si
dovesse attendere l’immancabile intervento dell’Autorità costituita dallo
Stato, la quale avrebbe ad un certo momento, con le forze della legge e in
ossequio alle varie sue carte, garanzie e statuti, provveduto a strappare i
denti e le unghie all’illegale movimento fascista.
Come dimostrò l’eroica resistenza proletaria, come attestano le porte delle
Camere del Lavoro sfondate dai colpi d’artiglieria attraverso le piazze su cui
giacevano i cadaveri degli squadristi, come provarono i rioni operai delle
città espugnati, come a Parma dall’esercito, come in Ancona dai carabinieri,
come a Bari dai tiri della flotta da guerra, come dimostrò il sabotaggio
riformista e confederale di tutti i grandi scioperi locali e nazionali fino a
quello dell’agosto 1922 (che, a detta dello stesso Mussolini, segna la decisiva
affermazione del fascismo, giacché la pagliaccesca marcia su Roma in vagone
letto del 28 ottobre fu fatta solo per i gonzi), senza il gioco concomitante di
questi tre fattori il fascismo non avrebbe vinto. E se nella storia ha un senso
parlare di fatti non realizzati, la mancata vittoria del fascismo avrebbe
significato non la salvezza della democrazia, ma il proseguire della marcia
rivoluzionaria rossa e la fine del regime della classe dominante italiana.
Questa, ben comprendendolo, in tutti i suoi esponenti, conservatori e
social-riformisti, preti e massoni, plaudì freneticamente al suo salvatore.
Se questo giustamente rappresentò il primo dei tre fattori della vittoria,
al secondo, la forza dello Stato, vanno dati i nomi dei partiti e degli uomini
che governarono l’Italia dal 1910 al 1922, i liberali come Nitti e Giolitti, i
social-riformisti come Bonomi e Labriola, i clericali in via di
democratizzazione come Meda e Rodinò, i radicali come Gasparotto e così via. Al
terzo fattore, costituito dalla politica disfattista dei capi proletari, vanno
dati i nomi dei D’Aragona e Baldesi, Turati e Treves, Nenni e compagni, che
giunsero, a nome dei loro partiti e dei loro sindacati, a firmare il patto di
pacificazione col fascismo, patto che comportava il disarmo di ambo le parti,
ma naturalmente valse soltanto a disarmare il proletariato.
Assunto al potere, il nuovo movimento politico della classe dominante
italiana trovò la migliore intesa col Re democratico massone e
socialisteggiante e non trovò difficoltà a scegliersi servitori tra i
parlamentari giolittiani, liberali, radicali e cattolico-popolari.
L’estirpazione di ogni residuo movimento autonomo operaio continuò in forme che
potevano ormai rivestire di aspetti ufficiali l’illegalismo.
Ben presto il nuovo sistema, di cui la chiave evidente era la sostituzione
del partito unitario borghese al complesso ciarlatanesco dei partiti borghesi
tradizionali (prima realizzazione della tendenza del mondo moderno, per cui in
tutti i grandi Stati del capitalismo in fase imperiale amministrerà il potere
un’unica organizzazione politica) passò alla liquidazione del personale delle vecchie
gerarchie politiche, e questi complici del primo periodo furono liquidati ed
espulsi a pedate dalla scena politica. L’episodio centrale della resistenza di
questo strato che troppo tardi si accorgeva dello sviluppo degli eventi, ma che
storicamente mai avrebbe cambiato strada (perché‚ cambiarla a tempo avrebbe
significato rinunziare al sabotaggio della rivoluzione) fu costituito dalla
lotta sorta dopo l’uccisione di Matteotti.
Questo gruppo ignobile di traditori invocò e pretese l’appoggio e
l’alleanza del proletariato per rovesciare il fascismo, ma nello stesso tempo
non cessò dal piatire il legale intervento della dinastia, dal fare l’apologia
della legge, del diritto e della morale, tutte armi che non scalfivano per
niente la grandeggiante inquadratura fascista, e dal deprecare ogni violenza di
masse.
L’avanguardia cosciente del proletariato in tale momento non doveva avere
lacrime per la violata libertà di questi sporchi servi del fascismo, ma, dopo avere
virilmente sostenuta la bufera della controrivoluzione, ben poteva compiacersi
della sorte di questi miserandi relitti delle cricche parlamentari. Da allora,
invece, comincia a sorgere il prodotto più nauseante del fascismo,
l’antifascismo bolso, incosciente, privo di connotati, incapace di classificare
storicamente il suo avversario, incapace di capire che, se questo ha potuto
vincere, è perché‚ le vecchie risorse della politica borghese erano fruste e
fradice, incapace di intendere che solo la rivoluzione può superare la fase
fascista, e che contrapporvi il nostalgico desiderio del ritorno alle
istituzioni e alle forme statali del periodo che la precedette è veramente la
più reazionaria delle posizioni.
Durante il suo primo periodo, il fascismo sedò le resistenze, liquidò i
residui delle vecchie organizzazioni politiche, impostò la sua non originale e
non risolutiva soluzione delle questioni sociali prendendo a prestito dai
programmi del socialismo riformista la inserzione nello Stato degli organismi sindacali
e la creazione di un meccanismo arbitrale centrale, che, al fine supremo della
conservazione dello sfruttamento padronale, compensava i guadagni e le
rimunerazioni dei lavoratori contenendo a grandi sforzi in un piano economico
generale la speculazione capitalistica.
Ma questo primo esperimento di amministrazione politica totalitaria della
vita sociale, nell’ambiente economico italiano di scarso potenziale intrinseco,
dette risultati assai meschini, e l’apparente solidità del regime si mantenne
solo con l’abuso smodato di una retorica parolaia, che fu la continuazione
fedele della vuotaggine del tradizionale parlamentarismo italiano.
Dal punto di vista convenzionale e borghese, il fascismo segnò una nuova era
rispetto al ciclo precedente della classe dominante italiana, nelle sue vicende
di politica interna ed estera. Contro la concorde, benché opposta affermazione
di questa antitesi da parte dei dottrinari da operetta del fascismo e
dell’antifascismo, una valutazione marxista riconosce la logica e coerente
continuità e responsabilità storica nell’opera e nella funzione della classe
dominante italiana prima e dopo il 28 ottobre 1922. Tutto ciò che è stato
perpetrato e consumato dopo trova le sue premesse necessarie in quanto si
svolse nei precedenti decenni.
Lo stesso movimento fascista, con la pseudo-teoria che mai seppe prendere
corpo, nasce con continuità di atteggiamenti, di consegne, di organizzazioni e
di capi, dal movimento dei fasci interventisti dal
La diretta continuità di movimenti tra il periodo parlamentare, quello
fascista e quello post-fascista odierno, può leggersi nel processo di
liquidazione della tradizione antivaticana. Quando la sinistra proletaria
ripudiava l’anticlericalismo di maniera, le veniva rimproverato di favorire il
pericolo clericale. Ma in realtà, non solo la politica indipendente proletaria
si giustificava con la valutazione che tale pericolo non era più grave di
quello di snaturare nella collaborazione massonica la fisionomia classista del
partito proletario, ma con la certezza che quel pericolo era uno spettro
fittizio, e che, in un avvenire non lontano, per quanto allora presentato come
ingombrante paurosamente tutto l’orizzonte storico-politico, sarebbe stato
disinvoltamente e sfrontatamente dimenticato.
Parallelamente all’intelligente politica del Pontificato verso i nuovi
rapporti sociali di classe del mondo borghese, l’intransigente partito clericale
si mutava all’indomani della guerra nel «Partito Popolare Italiano», oggi
«Democrazia Cristiana», operante nell’ambito della costituzione parlamentare
italiana.
Il movimento cattolico era stato, come quello socialista, contro la guerra,
il Papa Benedetto XV aveva trovata la potente invettiva dell’inutile strage, e
dicono fosse morto anzitempo nello spettacolo dei cristiani massacrantisi in
nome di Dio. Seguì alla guerra una politica di realismo opportunista. Come
tutte le forze borghesi, i cattolici videro con gioia l’azione fascista
sventare il pericolo rosso ed al fascismo offrirono nei primi ministeri diretta
collaborazione. Liquidati, insieme agli altri servi sciocchi, nella crisi
1924-25, i popolari cattolici operarono la lenta conversione che li presenta
oggi come uno dei pilastri d’angolo dell’antifascismo.
Frattanto il Vaticano proseguiva senza interruzione la sua politica di
liquidazione delle intransigenze anti-italiane, e, malgrado la polemica teorica
contro la pseudo ideologia fascista deificante i concetti di Patria, di Stato,
di Razza che esso non poteva tollerare, perveniva alla completa conciliazione,
vecchio sogno di tutti i conservatori italiani, attuando all’apogeo del ciclo
fascista il Concordato del 1929 e chiudendo la fase storica di conflitto aperta
nel 1870.
La dinastia sabauda, al tempo stesso bigotta ed atea, pietista e massonica,
credeva di consolidare ulteriormente, con questa conquista, la sua base
politica. La rinascente pretesa democrazia di oggi, intenta stupidamente a disfare
pietruzza per pietruzza l’edificio fascista, non ha trovato una frase n‚ una
parola contro il concordato di Ratti e Mussolini, o per far rivivere, sia pure
a scopo commemorativo, la gloria della sua passata retorica anti-vaticana.
Quando il dominatore che Re e Papi temettero ed elevarono a loro pari con
Collari e Croci, fu travolto da altre forze, la gerarchia del Quirinale e
quella del Vaticano furono concordi nella politica di presentarsi come nemiche
e demolitrici del potere di Mussolini. Se nel guazzabuglio politico dei partiti
dell’antifascismo, qualche timida obiezione sorge alla pretesa di verginità
antifascista dei Savoia, o almeno di Vittorio Emanuele III, è quasi completo il
silenzio nei confronti dell’analoga manovra politica compiuta dal pontificato
attuale. Sta a spiegare, questa differenza di comportamento, insieme alla
congenita vigliaccheria dei politicanti italiani, il fatto che, mentre le
azioni del re sabaudo sono poi precipitosamente cadute, la curia vaticana è
tuttavia una forza storica di assoluta efficienza, non scossa, e forse anzi
rinvigorita, dalle vicende della guerra.
E la posizione di questa forza nei rapporti del conflitto tra le classi
sociali dimostra ancora una volta la continuità e la rispondenza tra le
posizioni borghesi fasciste e quelle antifasciste, che, malgrado la diversità
delle presentazioni retoriche, fanno fulcro sui concetti di collaborazione
delle classi e sulla propaganda di economie pseudo collettive, che salvano il
principio dello sfruttamento borghese tentando di evitare l’opposta pressione
dell’organizzazione proletaria.
Il pontificato oggi, nelle comunicazioni fatte nel corso della guerra, se
talvolta, quando l’esito di questa era indeciso, è giunto ad enunciare una
critica delle sue cause che ne riporta l’origine ad epoca assai più remota del
sorgere dei regimi di Mussolini e di Hitler, denunziando le tremende
sperequazioni tra le fortune plutocratiche e la miseria operaia caratteristiche
della moderna società, nel suo programma positivo, economico e politico,
riecheggia i motivi reazionari del corporativismo fascista e della democrazia
progressiva, oggi in voga. Fondare in politica la democrazia su qualità morali
dei governanti e dello strato professionale governativo, è parola storica tanto
retriva quanto l’invocazione di una economia di frammentazione della ricchezza,
di polverizzazione della proprietà, che vuol dare agli oppressi economicamente
l’illusione che il capitalismo, anziché spingersi sempre più follemente verso i
vortici delle disparità economiche, si possa volgere ad un regime dove tutti al
tempo stesso saranno lavoratori e proprietari.
Non diversamente parlò alle masse sfruttate il fascismo, e non è meraviglia
che gli economisti delle democrazie politiche e sindacali accettino le parole
economiche vaticane, convergendo nel piano della socializzazione dei latifondi
e dei monopoli, che non maschera altro che il divenire monopolistico e
fascistico del capitalismo statale.
Clericali ed anticlericali ieri, fascisti ed antifascisti oggi, i borghesi,
nel mondo come in Italia, sono veduti dal metodo storico proletario percorrere
un unico ciclo ed una crisi parallela.
Il ridicolo «bis» del Risorgimento
E per tutto questo che l’odierna parola della ripetizione e della restaurazione
delle conquiste del Risorgimento nazionale italiano risulta molto più
reazionaria delle stesse parole d’ordine del fascismo. Non solo un «bis» di
questo genere è storicamente un non-senso, ma la via del Risorgimento non è
altro che la via che ha condotto al regime fascista come al suo sbocco storico.
L’idea che il fascismo vada considerato diversamente da tutti gli altri
processi sociali e storici, come una mallatìa, o se si vuole, come una
distrazione della storia, come una parentesi bruscamente aperta e bruscamente
chiusa, come un’alzata e calata di sipario su uno spettacolo ributtante,
equivale a ritenere che tale fase storica non abbia le sue radici in tutti gli
eventi che la precedettero e che gli eventi ad essa successivi possano non essere
influenzati da essa. Tale idea è l’opposto della concezione scientifica e
marxista della storia, e va da questa spietatamente respinta. Tale idea,
infine, equivale a ristabilire ed esaltare, sotto pretesto di radicalismo
antifascista, le cause stesse della generazione del fascismo, ed è la più
forcaiola delle idee che la politica di questi tempi abbia potuto mettere in
circolazione. La coscienza politica del proletariato respinge dunque l’invito a
dare alla classe dei suoi sfruttatori nuovo appoggio e nuova alleanza per
ripercorrere insieme la strada che ha condotto alla presente situazione, e
rifiuta di prendere anche per un momento sul serio la presentazione della
borghesia italiana sotto la luce romantica che pretendeva irradiarla nelle
prime sue manifestazioni cospirative ed insurrezionali di un secolo addietro.
Accreditare la classe dominante italiana con questo colossale trucco storico e
politico è meno facile che presentare come candida verginella la più esperta e
matura professionista del meretricio.
Comunque, la situazione succeduta al fascismo è di tale miseria politica,
che non contiene nemmeno gli elementi retorici che rispondono a queste banali
riesumazioni, alla nuova rivoluzione liberale ed al Risorgimento seconda
edizione.
Come si può dire che il più disgraziato e pernicioso prodotto del fascismo
è l’antifascismo quale oggi lo vediamo, così può dirsi che la stessa caduta del
fascismo, il 25 luglio ‘43, coprì nel medesimo tempo di vergogna il fascismo
stesso, che non trovò nei suoi milioni di moschetti un proiettile pronto ad
essere sparato per la difesa del Duce, ed il movimento antifascista nelle sue
varie sfumature, che nulla aveva osato dieci minuti prima del crollo, nemmeno
quel poco che bastasse per poter tentare la falsificazione storica di averne il
merito.
Vi furono negli anni del fascismo ed in quelli di guerra opposizioni,
resistenze e rivolte, come vi sono state nelle zone tenute dai fascisti e dai
tedeschi lotte condotte da partigiani armati. Ma mentre il politicantismo
borghese è riuscito a dare a questi movimenti le sue false etichette liberali e
patriottarde, nella realtà sociale tutti quei conati generosi vanno attribuiti
a gruppi proletari, che, se nella coscienza politica non si sono saputi
svincolare dalle mille menzogne dell’antifascismo ufficiale, nella loro
battaglia esprimono il tentativo di una rivincita di classe, di una
manifestazione autonoma di forze rivoluzionarie tendenti a schiacciare tutte le
forze nemiche degli strati sociali dominanti e sfruttatori.
Il tracollo decisivo del regime fascista è derivato dalla sconfitta
militare, dalla logica politica di guerra degli alleati, che, conoscendo la
fragilità dell’impalcatura statale militare italiana, hanno localizzato presso
di noi i primi formidabili colpi d’ariete della loro riscossa contro i successi
tedeschi. Quando il territorio italiano era largamente invaso, il fascismo
perse la partita non per il gioco dei suoi rapporti di forza coi partiti
italiani antifascisti, ma per il gioco di rapporti di forza tra l’organismo statale
militare italiano e quelli nemici.
Poiché la crisi culminante dello Stato borghese italiano (e non del solo fascismo
che non era che la sua ultima incarnazione) non coincideva affatto nel tempo
con la crisi dell’organismo militare tedesco, si determinò la situazione di
liquidazione catastrofica di tutta la forza storica della classe dominante
italiana. Questa, nel suo tentativo di gettare a mare l’alleato facendosene un
merito agli occhi del vincitore, percorse una via rovinosa, perché‚ in realtà
non aveva più forza per costituire una seria pedina nel gioco dell’uno o
dell’altro dei contendenti. Cercò di non confessarlo, e tutti gli attuali
partiti dell’antifascismo furono complici nella responsabilità di questa
vergognosa per quanto vana truffa politica.
Monarchia, Stato Maggiore, burocrazia, dapprima gettano a mare Mussolini,
ma, non avendo nulla preparato di positivo per affrontare non tanto il
fascismo, quanto il suo alleato tedesco, sono costretti a vivere l’ignobile
farsa dei 45 giorni, in cui dicono corna di Mussolini ma proclamano che il
popolo italiano deve seguitare a combattere la guerra tedesca. Preparano, poi,
non il cambiamento di fronte, impossibile ad un popolo e ad un esercito ormai
incapaci di combattere e stanchi di sacrificarsi dopo tutte le vicende passate,
ma esclusivamente il loro salvataggio di classe, di casta e di gerarchie, poco
curandosi che tale salvataggio di responsabili e complici inveterati della
politica fascista duplicasse l’amarezza del calvario del popolo lavoratore
italiano.
In questo quadro di clamoroso fallimento corrono a rioccupare i loro posti
i partiti della pretesa sinistra antifascista, e quelli che sfruttano i vecchi
nomi dei partiti della classe proletaria italiana. Ma nessuno di essi rifiuta
la corresponsabilità di questa colossale manovra di inganni e di menzogna.
L’Italia che aveva vissuto per 22 anni di bugie politiche convenzionali,
rimane nella stessa atmosfera, aggravata dal disastro economico e sociale.
Nessuno dei partiti antifascisti trova la forza di contrapporre alla retorica
della immancabile vittoria della banda mussoliniana, l’accettazione coraggiosa
della realtà della sconfitta. Essi si pongono sul terreno banale della parola
antitedesca cercando invano di presentare ai vincitori una Italia che, facendo
per quattro anni la guerra contro di essi, fosse in realtà una loro alleata, e
promettendo ciò che nessun partito italiano poteva mantenere, cioè un apporto
positivo alla guerra contro la Germania, ed in realtà anche dal punto di vista
nazionale non riescono ad un salvataggio parziale ma cadono in un peggiore
disfattismo.
Le parole dei giornali dei partiti che si dicono rivoluzionari, echeggianti
completamente quelle fasciste - unità nazionale, tregua di classe, esercito,
guerra, vittoria - parole altrettanto false quanto allora, mascherano soltanto
la libidine di dominio delle classi privilegiate, pronte ancora una volta ad un
mercato fatto sulla carne e sul sangue dei lavoratori, e rispondono al
tentativo di salvare alla borghesia italiana una posizione di classe economica
dominatrice, sia pure vassalla di aggruppamenti statali infinitamente più
forti, mediante l’offerta della vita, degli sforzi, del lavoro della classe
operaia, a vantaggio prima della guerra, poi del peso titanico della
ricostruzione. La borghesia italiana, la stessa che si servì di Mussolini, che
plaudì a lui, che lo seguì nella guerra finché fu fortunata, firma coi suoi
nemici un armistizio che non può pubblicare, perché‚ con esso ha tentato di
risalire dal vortice che la inghiotte a tutte spese di quelle classi che da
decenni ha ignobilmente sfruttate e che spera di poter seguitare ad opprimere,
se non come padrona assoluta, come aguzzina di nuovi padroni. Di questo segreto
contratto e del suo spietato carattere di classe sono volontariamente
corresponsabili tutti i partiti che agiscono oggi nel campo politico italiano,
che accettarono di coprire la manovra con l’adozione delle false parole
dell’alleanza, dell’armamento, della guerra, e che non osano, pur abbeverandosi
ad un’orgia di liberalismo, avanzare nessuna timida eccezione critica alla
dittatura di queste colossali menzogne.
Ritornando alla tesi-base dell’antifascismo di tutte le sfumature, secondo
cui il fascismo fu ritorno reazionario di regimi pre-borghesi e feudali, e dopo
la sua caduta si pone il postulato di ricominciare la rivoluzione ed il
Risorgimento borghese con la solidarietà di tutte le classi, dalla borghesia al
proletariato, e dopo di aver dimostrato l’enorme falsità storica e politica di
questa posizione, deve concludersi che, se per un momento la tesi fosse vera,
la rinascente borghesia avrebbe dovuto ricominciare il suo ciclo nelle forme
iniziali che gli furono proprie, forme di dittatura di classe, di direzione
totalitaria del potere, e non di tolleranza liberale.
Lo stesso fatto che le gerarchie politiche oggi prevalenti sono state
incapaci a scorgere la necessità, per estirpare il fascismo, di una fase di
dittatura e di terrore politico, dimostra che tra il fascismo ed esse - come
insegna la valutazione fatta secondo le direttive marxiste - non vi è antitesi
storica e politica, che il fascismo nei suoi risultati non è storicamente
sopprimibile da parte di correnti politiche borghesi o collaboranti, che gli
antifascisti di oggi, sotto la maschera della sterile ed impotente negazione,
sono del fascismo i continuatori e gli eredi, e prendono atto passivamente di
quanto il periodo fascista ha determinato e mutato nell’ambiente sociale
italiano.
E a conclusione di quelli che sono gli aspetti internazionali della
commedia e della tragica farsa che va dal 25 luglio all’8 settembre, va
ribadito che l’armistizio italiano non fu vero armistizio.
E mancato quel mercato militare che è la base del fatto giuridico di
armistizio. Era inutile stipularlo, e bastava proclamare ovunque la consegna
dei frammenti di territorio italiano alla forza del primo occupante straniero.
Il mercato è stato politico e di classe; quei gruppi, espressione della classe
dominante, hanno tentato di barattare il privilegio di governare e sfruttare
l’Italia, ossia la classe lavoratrice di questo paese, contro la firma di una
serie di condizioni di servitù politica ed economica, che la forza del
vincitore era ben libera di realizzare col suo diritto storico, ma che tuttavia
la sua propaganda può oggi presentare come giuridicamente garantite.
Con l’armistizio, la casta militare italiana, nella immensa maggioranza, non
invertì le direttrici del tiro, ma si preoccupò solo di rubare e vendere il
contenuto dei depositi, dopo aver buttato via armi e divise. I fascisti,
evidentemente, lo facevano per sabotare l’alleato, gli antifascisti per
sabotare i tedeschi. Soltanto a tale risultato poteva condurre il capolavoro
della tremenda opposizione antifascista italiana che, con la doppia manovra 25
luglio-8 settembre, coronò degnamente il corso della classe dominante italiana
in un secolo di storia. Da allora questo metodo geniale ha preso il nome di
«doppio gioco» con la caratteristica della sua miserabilità, e con quella che
esso non è servito nemmeno ad ingannare il padrone, da nessuno dei due fronti.
Il collasso delle classi dirigenti in
Italia e il proletariato
Se nell’andare alla rovina la classe dominante in Italia avesse lasciato
superstite qualche suo gruppo dotato di forza sociale e politica autonoma, o
almeno di una residua coscienza culturale ed intellettuale, lo si sarebbe
sentito da ambe le parti del fronte lanciare la parola, sia pure utopistica,
della liberazione del territorio da qualunque straniero, e accusare di
tradimento della patria tutti i partiti e gli uomini del 25 luglio, dell’8
settembre e del mostruoso blocco antifascista avallatore dell’armistizio, come
i fascisti che nel Nord si sono asserviti all’altro campo dell’imperialismo
straniero.
Lasciando al loro disastro tutti i relitti borghesi, sia quelli che sono
sopravvissuti nel professato vassallaggio ai due grandi contendenti della
guerra, sia eventualmente gli ultimi mistici non venduti di una indipendenza e
di una patria italiana, il partito nuovo della classe operaia italiana,
impostando le sue soluzioni sulle forze internazionali di classe, dovrà in ogni
caso sconfessare i due armistizi consumati nel disastro della guerra italiana e
condurre la sua lotta politica contro tutti i gruppi che si sono schierati nei
due governi della penisola e che hanno parlato di una collaborazione alle forze
di guerra da entrambe le parti.
Soprattutto, vinta la guerra da parte degli Alleati, il proletariato
italiano non ha alcun interesse a sostenere le rivendicazioni che i gruppi del
governo di Roma avanzano per le loro «benemerenze», in quanto ogni concessione
a questi da parte del vincitore sarà pagata dallo sfruttamento dei lavoratori
d’Italia, e si porrà contro il loro cammino verso l’emancipazione.
La parola contraria, che
vuole invece poggiare tali rivendicazioni sull’unità solidale delle classi e
dei partiti d’Italia, deve essere dal proletariato respinta come disfattista e
controrivoluzionaria.
Partito comunista internazionale
www.pcint.org